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 Gruppo  crittografia
 Titolo  Paradossi
 Autore  intelligiochi
 Data inserimento  luglio 2002
 Livello di difficolta'  difficile

Soluzione

Il testo è stato crittato utilizzando la tecnica di Vigenere con worm LOGICA

Ecco il testo in chiaro tratto dal giornale LA STAMPA 17 gennaio 2002

SONO LE ASTUZIE DELLA RAGIONE, CONTRADDICONO LE OPINIONI COMUNI, MA SPESSO CON I LORO RIBALTAMENTI INDICANO NUOVE STRADE DA PERCORRERE

Claudio Bartocci

La gloria di aver formulato il primo paradosso di cui si sia conservata memoria non spetterebbe ad Epimenide di Creta, figura semileggendaria di poeta e taumaturgo vissuto all'incirca nel VI secolo a.C., il quale sembra aver asserito:

«Tutti i cretesi sono bugiardi» - una frase che, se presa alla lettera, non può essere considerata né vera, né falsa.

E neppure a Zenone di Elea, discepolo di Parmenide (nonché suo amante, a detta di quella malalingua di Platone), che, per difendere il sistema filosofico del suo maestro escogitò una quarantina di paradossi,

in massima parte oggi perduti, che dimostravano l'impossibilità logica del movimento e della molteplicità.

No, la palma di inventore del primo paradosso tocca piuttosto al polytropos Odisseo, lo scaltro eroe dei mille stratagemmi:

«Il mio nome è nessuno» dichiara a Polifemo prima di accecarlo con un aguzzo palo d'ulivo arroventato,

e questi chiamando a soccorso gli altri ciclopi non può che gridare dal suo antro:

«Nessuno, amici, m'uccide d'inganno e non con la forza».

Il possente Polifemo - forse la prima vittima di una trappola logica - rimane così abbandonato al proprio destino e Odisseo si rallegra in cuor suo per aver architettato quella astuzia.

Nel suo racconto, Omero usa a questo punto, a significare l'«astuzia»,

la parola mêtis. Come fu messo in luce da Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant in un bellissimo saggio

(Le astuzie dell´intelligenza, tradotto da Laterza), la mêtis è una forma dell'intelligenza, una strategia del pensiero che unisce furbizia, accortezza e senso dell'opportunità e trova espressione nella destrezza

dell'auriga, nella sagacia del medico, nella malizia della volpe, nell'elusività del polpo.

Enigmi per filosofi.

In quanto tale, essa è l'arte della conoscenza congetturale e obliqua, atta a misurarsi con l'imprevedibile divenire del mondo: si oppone dunque al logos, che nella sua apollinea purezza riflette piuttosto l'armonia e l'immutabilità dell'essere.

Senza mai aver avuto un ruolo da protagonista sulla scena filosofica, la mêtis apparve definitivamente messa fuori gioco dall'affermarsi dei grandi sistemi elaborati da Platone e, successivamente, da Aristotele e dagli Stoici.

Eppure continuò a vivere come una tensione sotterranea, traendo forza dalla molteplicità dei fenomeni dell'universo e turbando i sonni dei filosofi sotto forma di paradossi, aporie, contraddizioni, enigmi.

I paradossi sono riflessi oscuri nel lucente specchio della ragione, crepe preoccupanti in un edificio da tutti, o quasi, ritenuto indistruttibile. Non per nulla, il termine paradoxon significa, letteralmente, «contrario all'opinione comune».

Sebbene si presentino spesso, i paradossi, sotto le innocue sembianze di storielle improbabili o

indovinelli giocosi - Achille riuscirà a superare la tartaruga? quanti chicchi di grano sono necessari per fare un mucchio? dico il vero o il falso se asserisco di essere sempre bugiardo? -, i filosofi hanno la tendenza a prenderli terribilmente sul serio.

Attenti a chi mente.

Aristotele è la nostra fonte principale per la conoscenza dei quattro argomenti di Zenone - la dicotomia, Achille, lo stadio e la freccia - proprio perché li analizza nei minimi dettagli. E nel tentativo di confutarli mette a punto alcune idee chiave della sua filosofia, ad esempio la distinzione tra infinito attuale e infinito potenziale.

Il paradosso di Epimenide, detto del mentitore, che si può rendere più conciso esprimendolo con l'affermazione «io sto mentendo» o nella forma più schiettamente autoreferenziale «questa frase è falsa»,

fu molto dibattuto dai filosofi medievali.

Guglielmo di Ockham tentò di sciogliere la contraddizione suggerendo l'esistenza, nel linguaggio, di diversi livelli di verità e di falsità;

Paolo Veneto, nella Logica Magna, enumerò ben quattordici possibili soluzioni,

una delle quali si basa sulla distinzione tra «uso» e «menzione», anticipando in tal modo un'idea che sarebbe stata riproposta solo molti secoli più tardi (ma che non risolve il paradosso del mentitore, come ha dimostrato Quine). I paradossi, tuttavia, non hanno soltanto un ruolo negativo nella storia del pensiero, non sono soltanto scogli pericolosi che insidiano la sicura navigazione dei filosofi.

Sfidando il logos e il senso comune, spesso inaspettati, essi indicano nuove strade da percorrere, suggeriscono cambiamenti di prospettiva, mettono a nudo le premesse inconsapevoli dalle quali muove il nostro ragionare.

E talvolta, con un completo ribaltamento epistemologico, diventano il fondamento di ciò che è accettato da tutti: come scrive Schopenhauer, «la verità nasce come paradosso e muore come ovvietà».

Soprattutto in matematica, non di rado accade che i vecchi paradossi non soltanto siano resi innocui,

ma finiscano per essere integrati con tutti gli onori nel corpo della disciplina, come teoremi,

definizioni o nuovi assiomi. Gli argomenti inventati da Zenone, opportunamente riveduti e affinati, furono lo strumento principe usato dai matematici, da Archimede fino a Pierre de Fermat, a Cavalieri, a Torricelli e Leibniz, per maneggiare il concetto di infinito potenziale, riuscendo a dimostrare teoremi che altrimenti sarebbero rimasti inaccessibili. La distinzione tra infinito potenziale e infinito attuale - il trucco di Aristotele - scomparirà soltanto nella seconda metà dell'Ottocento per merito di Georg Cantor, che mostrò in che modo e in che senso si possano «contare» i punti di un segmento; ad Achille fu finalmente possibile raggiungere e superare la tartaruga. L'antinomia di cui Bertrand Russell (lo stesso Russell che nel 1950 fu insignito del premio Nobel per la letteratura e nel 1966 istituì l'omonimo Tribunale internazionale per i crimini di guerra)

diede notizia, nel 1902, a Frege riguardava una bizzarra creatura logica, la «classe di tutte le classi che non appartengono a se stesse».

La matematica va in crisi.

Questa è autocontraddittoria, perché dovrebbe al tempo stesso contenere e non contenere se stessa,

eppure sembrerebbe avere lo stesso diritto all'esistenza della «classe di tutte le classi che contengono se stesse»,

la quale non crea invece nessun problema.

Il paradosso di Russell fu uno dei fattori scatenanti di quella crisi dei fondamenti nella matematica di inizio

Novecento che mutò la concezione stessa della disciplina: per evitare di incappare in altre trappole logiche,

si limitò il ricorso all'intuizione e si accentuarono gli aspetti formali e assiomatici.

Ma il caso più interessante è fornito dal paradosso del mentitore, che subì ad opera di Kurt Gödel una singolarissima trasmutazione.

Se noi siamo un teorema.

Invece che sulla frase «io sto mentendo», Gödel prese in considerazione la frase, in apparenza altrettanto paradossale, «io non sono dimostrabile» e riuscì dimostrare, nel 1930 - quando aveva appena 24 anni -,

che anche in un sistema formale semplice come l'aritmetica elementare si può costruire, in linguaggio matematico, un'espressione siffatta.

Dato che nell'aritmetica è impossibile dimostrare falsità, allora la frase «io non sono dimostrabile» non può essere falsa, perché altrimenti sarebbe dimostrabile. Deve essere allora vera, e quindi non è dimostrabile.

Al contrario di quel accade per il paradosso di Epimenide, qui non c'è nessuna contraddizione, ma si è provato un teorema, per quanto sconcertante: esistono espressioni vere e non dimostrabili.

Il risultato di Gödel infrange definitivamente quello che era stato il sogno di David Hilbert

- ridurre la matematica a un sistema formale privo di contraddizioni dal quale è bandito ogni ignorabimus -

e assesta così un colpo mortale alla pretese di onnipotenza del logos.